sabato 4 febbraio 2006

La modernità come prodotto coloniale


Nell’introduzione del primo numero della la rivista milanese Antropologia, l’antropologo Setrag Manoukian descrive gli aspetti meno noti del personaggio letterario Robinson Crusoe, raccontandoci il mondo coloniale in cui si trova a vivere e di cui è protagonista. La letteratura coloniale contiene spesso le informazioni che gli storici sottovalutano.

Il mito di Robinson Crusoe ha un presupposto coloniale. Siamo abituati a raffigurarci Crusoe sull’isola, solo, che si interroga su se stesso e su Dio mentre piega la natura all’utile attraverso la disciplina del lavoro. Siamo soliti pensare che solamente dopo aver stabilito il proprio regno e la propria identità Crusoe incontri e sottometta l’alteritá di Venerdì, rendendolo un docile servo. Ricorriamo spesso a queste visioni isolane di Robinson per esemplifcare l’immaginario borghese moderno: autoanalisi, l’etica del lavoro, l’oggettivazione della natura come risorsa, la sottomissione dell’Altro. Ma ci dimentichiamo di ciò che precede l’isola e la presuppone. Non ricordiamo come Crusoe sia arrivato sull’isola e come abbia acquistato quelle conoscenze che gli permetteranno di sopravvivere una volta trovatosi lì. Spinto da irrequietezze giovanili Crusoe aveva abbandonato la casa paterna in Inghilterra e si era imbarcato in cerca di avventure. Aveva passato un periodo di schiavitú tra i “mori” in Africa, era riuscito a salvarsi ed era diventato proprietario di una piantagione in Brasile, sfruttando le possibilitá del colonialismo mercantile. Lì alcuni mercanti e piantatori suoi conoscenti facendo leva sulla sua esperienza in mare e lo avevano convinto ad imbarcarsi nuovamente per guidare una spedizione per l’acquisto di schiavi. Una tempesta sorprese il convoglio durante la traversata. La nave di tale naufragio era una nave coloniale.
Se si considera la preistoria coloniale di questo mito dell’occidente moderno, siamo costretti a porsi domande nuove. L’autonomia, l’intraprendenza e la perseveranza di Crusoe appaiono attraverso questa prospettiva non tanto il frutto di doti individuali o di una nuova etica quanto gli effetti di un percorso specifico in cui la costruzione del sé, la religiosità e la relazione con la natura sono intersecate con le vicebde coloniali e non possono essere disgiunte da queste ultime. Le continue domande di Crusoe su se stesso, le sue abilità di coltivaore ma anche la sua “chiamata” e la sua redenzione presuppongono un certa economia di tali merci e desiderio, una rete di esperienze e conoscenze che è radicata nell’universo coloniale nel suo periodo mercantile di viaggio, esplorazione e conquista.
L’incontro con Venerdì non è il confronto con l’alterità assoluta, ma la continuazione di un intreccio prefigurato dalle avventure di Crusoe in Africa e dalle sue attività schiavistiche in Brasile.
Pensato da questa angolatura il mito di Crusoe ci ricorda che la modernità è un prodotto coloniale; non il risultato di dello sviluppo lineare e autoctono dell’Europa, ma piuttosto uno degli esiti del complesso intreccio di storie prodotte nel punto d’incontro tra le traiettorie di espansione europea e le realtà che si trovano su questi percorsi o si producono in relazione alle traiettorie stesse.

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