Presentazione del volume "Erbe spontanee del nostro territorio"
Fotografia di Stefania Mari
Testi e presentazione di Paolo Pecchioli
E’ il “prato” ciò che noi vediamo, oppure vediamo un’erba più un’erba più un’erba...?
(Italo Calvino; Palomar)
Abbiamo deciso di realizzare questo lavoro credendo nella sua utilità.
Siamo convinti che saper distinguere un raperonzolo, una calendula, il fiore della borragine o quello di un tarassaco dal verde indistinto di un prato o di un campo, sia utile almeno per due motivi. Il primo motivo è il rispetto che scaturisce dalla conoscenza: quel prato che fino a ieri abbiamo guardato come si guarda una distesa verde ed uniforme, improvvisamente si riempie di nomi, di significati, di differenze. La distesa verde si svela essere composta da piccoli insiemi di unità, gruppi e sottogruppi, da insiemi di differenze. Se lo si guarda con attenzione, siamo certi che un prato può diventare la bellissima metafora del mondo. E’ un po’ quello che succede al signor Palomar di Italo Calvino mentre osserva il praticello nel giardino di casa.
I prati ed i campi del nostro territorio probabilmente si ripetono da anni nella loro composizione, ma il nostro sguardo no, il nostro sguardo può cambiare e con esso può cambiare il modo di pensarli e di rapportarsi con essi. Ed ecco che ciò che fino a ieri chiamavamo terra, col cambiare del nostro sguardo e del nostro punto di vista può diventare territorio e poi ancora paesaggio.
E’ questo il secondo motivo che ci ha spinto a realizzare questo lavoro: la convinzione di star contribuendo ad un nuovo modo di pensare il nostro paesaggio, che è il paesaggio toscano che tutto il mondo apprezza, nel quale ci identifichiamo e al quale leghiamo la parte più intima della nostra identità.
Un territorio diventa paesaggio quando su di esso agiscono uno sguardo e una coscienza.
Dovremmo ricordare che il paesaggio è sempre un manufatto umano, anche in quelle componenti che reputiamo spontanee: lo si costruisce di giorno in giorno, sia a livello simbolico che reale.
Un paesaggio è sempre prima pensato che realizzato, anche se spesso siamo portati a credere il contrario, e prima del paesaggio reale, fatto di “cose” ne esiste uno fatto di idee e di immagini.
Sono le immagini che abbiamo assimilato dal cinema, dalla letteratura, dalla pittura, dalla fotografia e che quindi fanno parte del nostro vissuto e delle nostre conoscenze. Siamo tutti più o meno consapevoli dell’enorme forza evocativa e simbolica del nostro paesaggio; amiamo le sue pietre, i suoi cipressi le sue vigne, le distese di girasoli, le strade bianche, gli ulivi, le pievi, i castelli, i boschi, i cascinali, e tutto ciò che ci rende orgogliosi.
Ma attenzione. Proprio il nostro paesaggio toscano, proprio ciò che consideriamo il frutto di saperi ed esperienze antiche, autoctone e locali, dal quale facciamo dipendere elementi importanti per la nostra vita come la genuinità dei cibi, la purezza delle acque, la qualità del vivere, la salute e tante altre cose buone, è invece il prodotto di lunghi e profondi processi di contaminazione. E non potrebbe essere altrimenti.
Sappiamo che il paesaggio toscano, da tempo indeterminabile, è stato oggetto d’interesse di viaggiatori, scrittori, pittori, registi e poeti; per tanto si è dovuto “truccare” per esigenze di scena; inoltre si è dovuto fare bello agli occhi dei turisti: tedeschi, inglesi, americani, giapponesi,ma anche italiani, e continua ancora oggi a farsi bello per gli occhi dei nuovi turisti, che da tutto il mondo continuano a scegliere la Toscana come meta dei loro viaggi.
Il paesaggio toscano si è quindi reso vendibile, fotogenico, attraente; si è trasformato sulla base di una “domanda estetica” di un turismo sempre più esigente, si è plasmato secondo i gusti e le volontà degli acquirenti che chiedono sempre più toscana, sempre più toscanità.
Ma è giusto far notare che alla costruzione del paesaggio toscano non vi partecipano solo gli occhi del turista. Credo sia doveroso ricordare che buona parte dei cascinali, delle ville, delle fattorie, dei fienili, dei casolari, delle coloniche un tempo abbandonati e ridotti a ruderi e poi trasformati in veri e propri gioielli del nostro paesaggio per il piacere di chi li abita o di chi vi soggiorna, sono fatti mattone dopo mattone con le mani di muratori albanesi, rumeni, marocchini, che magari senza volerlo hanno portato, anche se sotto la guida di maestranze locali, le loro tecniche, i loro saperi, il loro stile. Voglio dire che anche ciò che noi consideriamo la parte più originale ed intima della nostra identità di toscani, è frutto di mediazioni e contaminazioni culturali che non possiamo far finta di non vedere. Il paesaggio toscano che tanto ci rende orgogliosi si costruisce sempre di più per l’occhio del turista e con la mano dell’emigrato.
Il tema della contaminazione del nostro paesaggio toscano è presente persino in quegli elementi che amiamo definire spontanei, com’è il caso delle nostre erbe. Fra le trenta varietà che abbiamo trattato in questo libro c’è n’è una che più delle altre mi ha incuriosito, e non tanto per il suo aspetto o per le sue proprietà, bensì per il nome con cui veniva chiamata dai nativi delle colonie inglesi durante il secolo XIX: é la piantaggine, chiamta white man’s foot, ovvero del passo dell’uomo bianco, poiché i suoi semi furono diffusi ovunque dagli europei trasportati nel risvolto dei pantaloni.
Lo spirito col quale ho accettato di presentare questo lavoro è quello di guardare alla nostra terra, al nostro territorio e al nostro paesaggio rifiutando le rivendicazioni campanilistico-paesaggistiche che la smania per il prodotto locale e la cultura della tipicità di cui è il figlia, continuano a proporci e a diffondere. Magari, con la presunzione di aver afferrato, anche per un momento, il pensiero di Palomar e le sue riflessioni di fronte al verde praticello di casa. Ripartiamo dal raperonzolo.
Paolo Pecchioli
Antropologo Culturale, Università di Granada
Spagna
giovedì 19 aprile 2007
Tuskanity
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