La cosmologia, la mitologia, le tradizioni storiche e le concezioni religiose di una comunità si proiettano sul territorio e vi si radicano, legando strettamente le vicende storiche e le istituzioni sociali con il contesto fisico e geografico.
(Condominas, G.)
Il paesaggio come fatto umano rientra nelle preoccupazioni dell’antropologia nella misura in cui è la posta in gioco dei rapporti sociali, supporto e risultato di percezioni comuni culturalmente consolidate. Il paesaggio è un’entità così umana da essere oggetto e pretesto di strumentalizzazioni, giochi di potere, meta di conquista e icona da esibire in rivendicazioni territoriali. Nel tempo, caricato di significati politici, è stato simbolo della nazione, della patria; quasi sempre è al centro del confronto tra il potere e i gruppi sociali che lo contestano.
Ibridità omogenee
Dove le strade dritte delle zone industriali incrociano quelle di campagna, segnati da un recinto fatto di canne, reti da letto, vecchi infissi e brandelli di rete metallica ricoperti di vegetazione rampicante stanno gli orti urbani. Dove la terra sa di calce: la si lavora o con le ruspe o con le mani. Sottoforma di insediamenti o del tutto appartati, inglobati con gli elementi più “forti” della dimensione urbana, occupano interstizi, sottili strisce di terra fra un isolato ed un altro, bordi di strade e porzioni di suolo non asfaltate fra edifici pubblici, vecchie fabbriche, sopraelevate, raccordi stradali ed incroci. La contaminazione è totale: oggetti di recupero provenienti dalla città, re-inventati negli usi e nelle funzioni, si uniscono a quelli provenienti dalle abitazioni private degli stessi costruttori, arricchiti di una nuova carica simbolica. La gestione del territorio - di un “fuori” - riflette la socialità della vita condominiale, quindi di un “dentro”: dalla manutenzione all’ arredamento, dal senso di proprietà ai rapporti di vicinato. Possiamo infatti considerare gli orti urbani una dimensione abitativa parallela a quella primaria: una miscela di intimità domestica e culto della strada, di proprietà privata e terra di nessuno. Recintare è il primo atto significativo: nella costruzione di un orto prima di occuparsi della terra, ci si occupa del territorio. E’ un atto che non si esaurisce in un solo momento, ma dura col perdurare dell’orto: ad oggetti preesistenti se ne affiancano nuovi, e nulla sostituisce nulla, ma tutto si appoggia e si unisce al già presente.
La percezione estetica che i costruttori di un orto hanno del paesaggio non sempre è allineata con i canoni della sensibilità ecologica contemporanea: ciò che viene ammirato di questo paesaggio è piuttosto il modo in cui è stato lavorato, cambiato, e se e quanto esso sia utile. I canoni estetici di “un bell’orto” risiedono nel lavoro ben fatto, nella capacità con la quale si è data forma alla materia grezza con il proprio lavoro, nell’abilità con cui si sono resi efficaci oggetti ricavati inventando assemblaggi e sovrapposizioni. Allo stesso modo i canoni estetici attraverso i quali gli autori degli orti giudicano le loro costruzioni non corrispondono a quelli dell’architettura contemporanea, né ai criteri di ordine/disordine secondo il costruire - e oserei dire l’arredare “colto” della post-modernità. Esiste un corpo di saperi superiore cui i costruttori fanno riferimento, qualcosa di molto più solido che non l’estro o l’iniziativa personale dell’autore. Può meravigliare infatti la presenza di moltitudini, cataste e mucchi di materiali fra i più svariati, tanto da far pensare ad un preciso intento estetico basato sulla predilezione di due stadi opposti e reciproci: il bilico e l’incastro. Il bilico pervade gli orti in maniera omogenea riflettendo la leggerezza degli gli ambienti provvisori. E’ lo stadio delle cose solo appoggiate e sospese in equilibrio. Gli oggetti in bilico sono sottratti di fatto dalla dimensione terrena per quella aerea, insieme a tutto ciò che non tocca la terra. Paradossalmente persino le aree in cui gli orti nascono possono essere considerate in bilico: in bilico fra l’inconsueto e il canonico, fra il legale e l’abusivo, fra l’urbano e il rurale, fra lo stanziale e il precario. E’ una sfida alla vacuità che trova negli incastri, nelle cose conficcate fra loro l’una nell’altra o nella profondità del suolo, una risposta strategica. Ogni incastro esprime l’intenzione definitiva di aggrapparsi alla terra, preludio scaramantico contro l’incubo costante di una ruspa che un giorno o l’altro butti giù tutto quanto.
Ridondanze
E’ significativa la costanza con cui certi oggetti ricorrano sempre con l’identica modalità di impiego da un orto ad un altro, da un insediamento ad un altro, anche distanti fra loro. Oggetti che curiosamente mantengono anche le stesse funzioni: basta pensare ai bidoni azzurri, alle reti da letto, alle lamiere ondulate ma soprattutto al vasto corollario di elementi derivati del vecchio arredo domestico cittadino, dai tappeti ai divani, dai tavoli ai lampadari.
Gli orti sono costruiti per lo più con oggetti che in casa non hanno più un posto, perché vecchi, rotti, consumati. Non è difficile trovarvi vecchi numeri civici collocati agli ingressi, citofoni guasti, cassette per le lettere, cornetti rossi scaramantici, o quadretti con immagini sacre, sistemati con seriosità, senso del paradosso e devozione sincera. Soprattutto per questo gli orti urbani si prestano a formidabile esempio di come “il paesaggio” sia allo stesso tempo contenitore e riflesso di scelte, necessità, e irrequietudini del gruppo umano che lo costruisce. Come un testo il paesaggio permette di essere letto: decodificarne la struttura vuol dire in sostanza arrivare all’uomo.
molto interessante questo post sugli orti urbani. hai rese concrete le mie sensazioni quando poso lo sguardo sugli orti attorno a casa mia...
RispondiEliminavienimi a trovare sul blog se ti va, mi occupo prevalentemente di alimentazione e comunicazione.
www.etnografia.it
a presto,
alessandra